di Francesco Dradi e Chiara Bertogalli

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Era una notte buia e tempestosa…

Come nei migliori racconti il primo incontro tra lupi e uomini, nel parmense, avviene in una serata fredda, bagnata di pioggia e nevischio.

Nel buio illuminato dai fari un’automobilista scorgeun’animale rannicchiato a terra, al bordo della tangenziale nord di Parma. Si ferma, gli sembra un cane ferito. Chiama i soccorsi. Il veterinario che accorre nello stupore si accorge immediatamente: non è un cane, è un lupo. Sì, qualche segnalazione c’era stata ma un lupo non si era mai visto prima da queste parti. Nemmeno in montagna, e ora all’improvviso lo si trova praticamente in città.

È la sera del 24 febbraio 2004. Diciannove anni fa.

Attorno a quel giovane lupo si danno da fare in molti. Per salvarlo, curarlo e rimetterlo in libertà dotandolo di un radiocollare satellitare, il primo in Italia, per tracciarne gli spostamenti. Mossa azzeccatissima: quel lupo ci condurrà in un’avventura emozionante, fino in Francia.

Quel lupo sarà denominato LM15, nelle sigle asettiche dei ricercatori, e popolarmente battezzato Ligabue, in onore del pittore. La storia di quel salvataggio la potete vedere qui.

Tra chi si affanna attorno a Ligabue, per dotarlo di radiocollare, un giovane zoologo, Luigi Molinari.

Tra chi ne canterà le gesta, lo scrittore Mario Ferraguti nello spettacolo teatrale “LM 15 storia di un lupo che finirà in Francia più di 1000 km dopo”, messo in scena assieme ad Andrea Gatti e Paolo Montanari.

Molinari, dal 2009, è un tecnico faunistico del Parco nazionale dell’Appennino Tosco Emiliano; in precedenza ha fatto una tesi sul lupo nell’area del Parco dei Cento Laghi e ha lavorato al Parco Nazionale d’Abruzzo. Con il suo gruppo di lavoro ha seguito pedissequamente il processo di ritorno del lupo nel nostro territorio.

Ferraguti è un cercatore di storie dell’Appennino. Prima che scomparissero nell’oblìo della storia si è messo sulle tracce di tradizioni e credenze montanare, di folletti e guaritrici, per trasferirne la memoria in libri e romanzi. Il suo ultimo libro “L’autunno in cui tornarono i lupi” (Bee edizioni, 2022) ripercorre con la fantasia vicende vere che accaddero circa quindici anni fa nelle nostre zone, suscitando paura e curiosità. La voce narrante si alterna immedesimandosi nella squadra dei cacciatori, nei ricercatori e nel lupo zoppo, che ha lasciato una zampa nella tagliola, cercando di indagare le oscurità e le speranze di ciascun stato d’animo.

È per questo che – per la prima delle storie di questa nostra avventura nella libera informazione – abbiamo voluto incontrare due tra i massimi esperti di lupi: uno in ambito scientifico, uno in ambito culturale.

L’intervista chiacchierata completa la trovate nel nostro podcast (di prossima pubblicazione).

Luigi Molinari: «Ormai sono decenni che il lupo è tornato. Ultimamente sta occupando aree di pianura antropizzate e le persone non hanno familiarità con la fauna selvatica e con i grandi predatori, sono oggetti abbastanza sconosciuti, ed è per questo che sarebbe il caso di fare una corretta informazione. La non conoscenza di qualcosa lo rende sempre più spaventoso. I termini utilizzati dalla stampa locale, non solo a Parma, non sono i più corretti un clima giusto intorno al ritorno di fauna selvatica in generale».

Francesco Dradi: «Quali sono i principali problemi con cui ti devi interfacciare nel lavoro quotidiano?»

Molinari: «C’è stata una evoluzione dei problemi  in questi anni. Il primo impatto è sull’attività zootecnica, in particolare su chi alleva ovi-caprini. Ma non ce ne sono molti nella nostra provincia, anzi. I problemi attualmente sono quelli della paura del lupo, soprattutto perché ogni tanto qualche lupo può predare animali da compagnia, tipo i cani. E questo induce un picco importante di odio nei confronti della specie, che è comprensibile ma va spiegato molto bene, perché si rischia di pensare che tutti i lupi uccidano cani e non è assolutamente così».

Dradi: «Il romanzo “L’autunno in cui tornarono i lupi” parte proprio da un episodio in cui un lupo si mangia un cane da caccia. Mario, com’è nata l’idea del romanzo?»

Mario Ferraguti: «C’è un’attenzione smodata sulla specie. In quel caso, tratto da una storia vera, un lupo aveva cominciato a mangiare tanti cani da caccia, creando un allarme sociale diffuso e questo mi ha dato modo di pensare a scrivere un romanzo, che per certi versi era già costruito, con dinamiche ben precise che sono paradigmatiche con quel che ha a che fare col lupo, coi nostri comportamenti e soprattutto la paura. Il romanzo è incentrato tantissimo sulla paura.

Gigi accenna al ritorno del lupo come ritorno della paura. Ed è molto interessante perché sull’Appennino ci sono due tipi di paure, una buona, che ci induce al rispetto, al nostro senso del limite. Per intenderci alla paura di Ulisse che sa di essere fragile, piccolo, vulnerabile di fronte a un universo che da un momento all’altro lo può far soccombere ma continua il viaggio con mille attenzioni. E soprattutto con un rispetto importantissimo, che la società tradizionale riserva a tante creature ed elementi, ai lupi come all’acqua, al fuoco. A tutte queste creature primordiali che non sono mai state addomesticate fino in fondo. Il fascino del lupo è anche questo. Il fatto di non essere stato addomesticato, di non aver fatto la fine del cane sostanzialmente.

E poi c’è una paura brutta, cattiva, che ti blocca, ti immobilizza. È la paura che per tradizione viene lavata, scorporata. C’è un lavaggio tradizionale stupendo, nell’appennino tosco-emiliano, nella zona dell’Abetone, dove la guaritrice scorpora questa paura perché è quella che ti pietrifica e non ti fa andare avanti. È una paura che se non gestita, porta a reazioni sconsiderate, porta addirittura alla violenza.

E sostanzialmente quello che ci stanno raccontando sul lupo porta a questo tipo di paura, una paura che non sappiamo dove mettere, e soprattutto è frustrante».

Chiara Bertogalli: «A questo proposito, Luigi, vari rappresentanti delle istituzioni si stanno muovendo chiedendo, forse sotto una spinta emotiva, che vengano istituiti dei piani d’abbattimento contro i lupi. Da questo punto di vista l’elemento paura quanto incide rispetto ad un elemento reale, suffragato dai dati. Perché sappiamo che con il WAC, Wolf Appennine Centre, monitorate i lupi, con dati dai radiocollare e conoscete il comportamento, l’etologia della specie.

Quanto la percezione di avere troppi lupi corrisponde coi danni reali?»

Molinari: «È complesso. Posso dire con certezza che i problemi che si riscontrano col lupo attualmente, la paura delle persone, la predazione su cane o su ovi-caprini non saranno risolti con gli abbattimenti legali, nel caso si aprissero. Dico legali perché tutti gli anni i lupi in provincia di Parma e Reggio Emilia sono abbattuti con una frequenza molto alta. Nelle nostre due province si uccidono illegalmente più lupi di quelli che si uccidono in tutta la Francia in un anno. Questo dà una misura di quanto si dice, che il lupo è un tabù, una specie non cacciabile, dal punto di vista pratico non è così vera. I lupi bracconati sono il 30%. Nelle province di Parma e Reggio si raccolgono una trentina di lupi morti, quindi ci sono 8-9 lupi  uccisi all’anno, sembrano pochi ma bisogna considerare che questo tipo di bracconaggio è una minima parte , c’è un sommerso che è molto più ampio. Chi braccona un lupo tende a nascondere la carcassa».

Dradi: «Come è scritto nel libro di Mario. Non hai inventato tutto di fantasia…»

Ferraguti: «È un dato di fatto rilevato dai tecnici. Questa attenzione, questo tentativo di uccidere i lupi è frequente, visibile e percepibile a livello sociale. Io ritorno sulla responsabilità di chi scrive di lupi, che si è trasformata in una sorta di incoscienza. Una volta che diffondiamo paura a dismisura in qualche modo gestiamo una sorta di terrorismo mal riposto, perché poi il territorio diventa un territorio insicuro, nemmeno più appetibile per un turismo. I sindaci che talvolta appoggiano queste polemiche sui lupi, troppi lupi, ovunque che scendono sempre dai monti spinti dai morsi della fame, che non mangiano mai, ma squartano, dilaniano, sbranano… dipingere un territorio assediato, questo è il tono che si utilizza, fa sì che diventi un territorio pericoloso, lo si percepisce nei racconti, anche nei bar.

Ne parlavo con Luigi, ci capita di entrare e sentire in certi ambienti di persone che hanno paura di andare nel bosco col proprio cane. Oppure una violenza verbale fortissima, quasi sempre dal mondo venatorio ma anche di agricoltori, a me sono arrivate diciannove lettere anonime…

Ma se si arriva al punto che un agricoltore mi diceva: il lupo distrugge i campi di patate, vuol dire che c’è qualcosa che non ha funzionato».

Molinari: «I lupi sono dappertutto, a onor del vero, in pianura padana e io dico purtroppo, perché mi occupo di conservazione della biodiversità, c’è una densità di lupi abbastanza alta. L’abbiamo misurata col monitoraggio nazionale ed è sostenuta da due elementi che non dovrebbero esistere: uno è la nutria, specie alloctona, e l’altra sono gli scarti delle grandi stalle di bovini.

E questi lupi, in un territorio aperto con pochi boschi, pieno di persone e strade, trasmettono una percezione di presenza sovrastimata; ma è obiettivamente vero che, a livello di densità, esistono più lupi in collina e pianura piuttosto che in montagna.

Questo meccanismo ecologico le persone che vedono i lupi non lo conoscono, così come non conoscono i motivi per cui i lupi a volte ci vengono a trovare a casa. Il lupo è molto contento di non venirci a trovare a casa, perché siamo l’unico suo pericolo. Lo fa se ha un vantaggio. In questi contesti il vantaggio è assolutamente quello che noi lasciamo fuori il cibo. Vi posso assicurare, grazie a quello che vediamo coi radiocollari satellitari, che la quantità di cibo disponibile ai lupi in pianura padana è qualcosa di allarmante che dovremmo cercare di gestire in maniera importante perché ha ricadute di natura sociale: l’avvistabilità, la predazione su cane e altre dinamiche».

Bertogalli: «A tuo modo di vedere l’attività venatoria, che va a colpire le popolazioni di possibili prede dei lupi, può influenzare il comportamento del lupo inducendolo a cercare cibo facile presso gli insediamenti umani?»

Molinari: «Ovviamente l’attività venatoria ha influenza su popolazioni di ungulati selvatici, quindi indirettamente sul lupo, ma l’attività di selezione su capriolo e cinghiale fa sì che i cacciatori prelevano una fetta che viene considerata in più, per mantenere una certa densità di questi animali, anche in base ai territori e ai danni che provocano. Perciò in montagna la densità obiettivo del capriolo è più alta rispetto a collina e pianura. L’attività di caccia non credo abbia influenza troppo marcata sui lupi. Ma dico sempre che la densità degli ungulati selvatici è come fosse una tavola: i lupi si siedono a tavola e mangiano per 4-5, se noi restringiamo la tavola di lupi se ne siedono 3. si regolano in base alla quantità di cibo».

Bertogalli: «Quindi potremmo smontare l’idea che i cacciatori e i lupi siano competitori?»

Molinari: «È un’asserzione vera poiché hanno interesse entrambi sulla stessa risorsa, non è vera perché c’è spazio per tutti e due, ad esempio sul cinghiale. Anzi l’obiettivo della Regione è diminuire drasticamente la densità del cinghiale: cacciatori, lupi e oserei dire bracconieri non ce la stanno facendo ad ottenere questo obiettivo, infatti il cinghiale sta aumentando in tutta Italia e ci sono situazioni come a Genova o Roma… Il lupo su altre specie ha un po’ più impatto, ad esempio sul capriolo, non sul cervo che in appennino sta aumentando da una ventina d’anni. Questa credenza che il lupo possa estinguere un ungulato selvatico è di per sé scientificamente falsa».

Dradi: «Guardiamo i dati. Il monitoraggio condotto dall’Ispra reso noto l’anno scorso certifica che ilupi sono 3.300 in tutta Italia, di questi 2.300 in Italia peninsulare. In una zona campione tra Parma e provincia è stata certificata una densità di 10 lupi in 100 kilometri quadrati. Come mai vi è densità così alta? È per via delle stalle del parmigiano-reggiano? Cos’è che piace al lupo, non il formaggio ma cosa?»

Molinari: «Gli piacciono le cose che non scappano: i vitelli morti e le placente. Anche questo è un discorso delicato, che si rischia di colpevolizzare una categoria che lavora anche bene. Un problema che si sta conoscendo adesso, perché a cascata ha un effetto sull’ecologia del lupo».

Ferraguti: «C’è un discorso fortissimo sulle responsabilità, la convivenza col lupo passa attraverso una serie di responsabilità importanti. Fa scalpore che un cane sia ucciso da un lupo ma a me sembra cosa normalissima. Se lasciamo in balìa del lupo degli animali domestici, il lupo li uccide ma fa bene, è qualcosa di normale, non è così straordinario. Siamo noi che dobbiamo assumerci la responsabilità di custodire i nostri animali, siamo noi che abbiamo creato cani che entrano nei boschi a rastrellare centimetro a centimero spaventando gli animali, tra l’altro facendoli diventare esseri artificiali perché nessun altro predatore spaventa la propria preda.

Siamo noi responsabili di questi animali, quando un lupo uccide una pecora, una vacca o, molto difficile, un cane, non è colpa del lupo ma della persona che non ha saputo gestire o proteggere i propri animali domestici.

È un discorso ampio, quando il lupo è tornato i pastori avevano perso l’abitudine a fare i pastori. Nel loro linguaggio straordinario, il g, una sorta di esperanto, in cui avevano estrapolato dei termini da tutti i dialetti della montagna, un linguaggio criptico per non farsi comprendere dagli agricoltori. La parola lupo nel gaì era già scomparsa negli anni Sessanta, perché i pastori credevano di non dover più aver che fare col lupo. E quindi una sorta di tradizione, i cani da difesa, la rete anti-lupo, era venuta meno perché non c’era più la percezione del predatore.

E il lupo rappresenta  da questo punto di vista anche un simbolo importantissimo. Noi dobbiamo capire se possiamo distruggere, annientare tutto ciò che ci pone minimamente in difficoltà o dobbiamo provare a conviverci. E questo vale per il lupo. Ma il lupo nero in questo caso ha fortissime attinenze con l’uomo nero, e quindi con il diverso, con lo straniero, l’extracomunitario, tanto è vero che una delle campagne di informazione più pesanti per riuscire a uccidere i lupi era che i lupi fossero ibridi, stranieri, importati, e quindi delegittimare la loro presenza sul territorio, dicendo qualcuno li ha messi, quindi facilmente io li posso togliere.

Questa è stata una campagna fortissima che ha fatto collimare fortemente la percezione del lupo straniero con l’essere straniero. In tutte le costruzioni dei giornali, è straordinario come questa impostazione quasi visiva, cromatica, con un utilizzo semantico ben ponderato e costruito ci presenta il territorio umano come territorio chiuso, protetto, fragile, chiaro, bianco con tutta una serie di accorgimenti e dall’altra parte il bosco, da cui proviene il lupo, il forestiero, il portatore del buio della foresta che aggredisce quest’altra entità. Da lì si crea la paura, e ripeto c’è una fortissima attenzione su questo, come per gli stranieri».

Bertogalli: «Mario porta dei temi correlati alla responsabilità della comunità. Io penso a chi ci amministra e in questo senso vi condivido una riflessione. Ma prima i lupi non c’erano, non ci dovrebbero essere. Non è che forse l’elemento mancante , in cui tutti stiamo reimparando una convivenza dimenticata, sia la cultura. Riportiamo le persone a sapere che alcune cose possono essere diverse, non più le stesse abitudini di trenta, quarant’anni fa ma che è necessario un cambiamento, e per accettarlo, si deve passare in un momento in cui ci si racconta come sono le cose, e vorrei riuscissimo ad uscire da questa dicotomia di chi lo accetta e chi no. Proviamo ad accompagnare tutti nella conoscenza. In questo il ruolo delle amministrazioni è fondamentale. Devono essere gli amministratori stessi che devono sapere che si può convivere col lupo. Le amministrazioni se non hanno la competenza possono costruirla e ci sono enti che possono aiutarli, nel gestire il cambiamento. Così come i cambiamenti tecnologici e sociali, deve passare attraverso un cambiamento culturale. Tutti abbiamo il diritto di imparare qualcosa in più.

In tante zone del mondo la convivenza col selvatico avviene».

Molinari: «Io dico sempre, se andate in Abruzzo e dite che voi avete paura del lupo, la gente vi guarda male. Non perché loro sono più coraggiosi o i lupi sono più buoni. Semplicemente loro lo hanno da sempre e hanno capito che il lupo è fastidioso per un pastore ma non è un animale di cui aver paura.

E poi una cosa che penso sempre, e che va in quella direzione che dici tu, siamo in una delle aree del pianeta in cui esistono meno animali pericolosi. In Nord America ci sono grizzlies, puma, in Africa i leoni, in Australia coccodrilli e squali, in Asia la tigre. Noi di animali pericolosi nulla. E il discorso culturale è molto importante per la paura, che dobbiamo scindere dagli eventuali danni sul patrimonio zootecnico. La paura è molto mediata dall’aspetto culturale. Buona parte del mio lavoro oggi è partecipare ad eventi di comunicazione, e sono sempre molto apprezzati dalla fascia giovanile, ed è l’unico modo.

Un esempio: un agricoltore che deve coltivare il mais, sa che esistono i cinghiali e per quanto possa odiarli sa che ci sono ed esisteranno a lungo. Arrabbiarsi dal punto di vista dell’efficienza costa e non serve.

Conosco pastori che non hanno avuto un danno e altri che ne hanno avuti tantissimi. Vuol dire che a seconda di come si può lavorare, di come si accetta o meno la presenza di un predatore cambia molto. Anche chi non ha avuto danni gli sono antipatici i lupi, però ha capito come si può convivere.  Significa attuare comportamenti tali che il suo reddito non è minacciato dalla presenza del predatore».

Bertogalli: «Perché si può passare da due visioni: una che lo demonizza e un’altra visione che lo considera come un peluche. La realtà è diversa. È un predatore, è bene che abbia paura dell’uomo, ma non si deve pensare che sia un elemento con un rischio residuo».

Ferraguti: «Una delle cose più sconcertanti, in relazione alla percezione da parte degli amministratori, o a livello sociale, è che in vent’anni non è cambiato nulla. Stessi toni, stesse paure, stessa dinamica ed esplodono polemiche e vengono strumentalizzate le paure, con notizie anche completamente false.

Io credo ci possa essere un cambio di passo , per arrivare ad una convivenza come in Abruzzo. Noi abbiamo avuto un lupo simbolico che ha convissuto con le popolazioni quando il lupo vero non c’era.

Era un lupo metafisico, un lupo presente nei racconti, nelle storie, nelle paure. Un animale archetipico che porta con sé un sacco pieno di paure. Ci affascina e nello stesso tempo ci terrorizza. Se cambiassero i toni, il modo di parlare di lupi, questo a me preme tanto. In questo romanzo descrivo 17 sindaci, ed è storia vera, che scrivono alla Prefettura e sostengono che il lupo metta in crisi la microeconomia della montagna, sostengono addirittura che il lupo possa provocare le frane.

Fin che siamo di fronte a questi discorsi non riusciremo a costruire nulla di buono. Ad abituarci a convivere con questo predatore. Ad un certo punto occorre davvero far conoscenza seria, quella dei tecnici del Parco nazionale ma che spesso, purtroppo, non vengono ascoltati, perché fino a poco tempo fa gli esperti sui giornali locali sono gli agricoltori e i cacciatori, in un cortocircuito che non trova via d’uscita. Se continuiamo a raccontarci che il lupo ci fa paura, che uccide i cani e che va eliminato, che sono troppi e nessuno fa nulla, siamo sempre all’interno dello stesso percorso, occorre una scintilla che dica, ok questo è il modo per convivere coi lupi: responsabilità, abbassare i toni, togliere di mezzo una paura smodata che non ha senso e riuscire a dare voce agli esperti veri. Questa è una strada possibile, occorre la volontà di percorrerla».

A completamento di questa storia pubblichiamo le “Istruzioni per costruire un animale finto nella testa della gente: il lupo” in 18 punti, elaborati da Mario Ferraguti cinque anni fa. Li trovate sul suo profilo facebook.

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