A fine luglio 100 scienziati italiani hanno inviato un accorato appello ai media: “Giornalisti, parlate delle cause della crisi climatica, e delle sue soluzioni”. Raccogliamo volentieri questo invito che, peraltro, rientra a pieno titolo nella linea editoriale di Libera Informazione in Parma. Al proposito abbiamo intervistato uno dei firmatari, Donato Grasso, docente di zoologia e biodiversità animale all’Università di Parma.
Qui la lettera degli scienziati.
Cogliamo l’occasione anche per segnalare un estratto del libro “L’era della giustizia climatica. Prospettive politiche per una transizione ecologica dal basso” scritto dal sociologo parmigiano Emanuele Leonardi assieme a Paola Imperatore, studiosa di conflitti sociali. Qui il link al primo capitolo.
di Chiara Bertogalli
Professor Grasso, lei è tra i firmatari ad aver sottoscritto la lettera indirizzata ai media da parte di un lungo elenco di scienziati e studiosi in prima linea negli studi sui cambiamenti climatici in Italia. Nella lettera (link) si chiede che vengano spiegate anche le cause dei fenomeni atmosferici che purtroppo abbiamo visto numerosi in questa calda estate, e si chiede che siano chiarite le soluzioni da intraprendere per mitigare l’incremento di temperatura prodotta dai gas serra che l’uomo immette in atmosfera bruciando combustibili fossili. Alla base della richiesta c’è il pericolo di non mettere le persone nelle condizioni di comprendere che agire si può ancora, che un cambiamento per il meglio è possibile, condannandoci ad un futuro di impotente ed inerme rassegnazione. Giorgio Parisi, premio Nobel per la Fisica, ha usato un paragone molto calzante: è come se durante l’epidemia di covid si fosse dato notizia solo dei morti senza spiegare che la causa era un virus.
Il tema della scarsa copertura mediatica dell’emergenza climatica è una delle molle che, nel 2019, mi hanno portato in piazza agli scioperi per il clima. Sono quindi almeno 5 anni che se ne parla, tuttavia solo pochi giorni fa, nel suo intervento alla Cerimonia del Ventaglio con la stampa parlamentare il Presidente Mattarella ha messo in guardia tutti i media rispetto al negazionismo e al perdere tempo in discussioni circa fatti ormai assodati, discussioni che a lui (e a noi) sembrano “francamente sorprendenti”. Nel 2019 le proteste studentesche guidate da Greta Thunberg richiamavano l’attenzione del mondo su qualcosa che stava arrivando. Ora, con fenomeni estremi sempre più frequenti ed un clima italiano che si avvia alla tropicalizzazione, la crisi climatica si sta spiegando benissimo da sola: reagire alla crisi infatti non è tanto questione di se, ma di quando: i danni e le vittime sono destinati a crescere se non interveniamo in maniera preventiva e massiccia. Sarebbe intuitivo dare spiegazioni delle cause, in maniera da poter intraprendere le azioni dirette ad eliminarle, quelle cause. Viene allora da domandarsi quale tassello manca, o è mancato, fra il mondo scientifico e i media e perché, invece, all’estero il tema è ampiamente coperto. Quale la sua interpretazione?
Ho ritenuto assolutamente opportuno appoggiare questa iniziativa proposta da alcuni colleghi della Comunità Scientifica del WWF (Antonello Pasini, Giorgio Vacchiano e Cristina Facchini) e supportata poi dal resto della Comunità e da altri scienziati, tra cui il Nobel Giorgio Parisi. Il tema della comunicazione delle informazioni scientifiche al grande pubblico e della necessità di farlo in modo corretto ed efficace è fondamentale in tutti gli ambiti, ma è davvero urgente e improrogabile nel caso dei processi e fenomeni legati alla crisi ambientale. Tra questi il tema dei cambiamenti climatici intorno al quale stiamo assistendo sui media ad una girandola di affermazioni spesso scorrette nei contenuti tecnici ma che a volte rasentano il ridicolo nelle modalità.
Ha ragione chi considera sorprendenti le discussioni che mettono in dubbio il cambiamento climatico globale e le cause antropogeniche di questo. Bisogna sgomberare il tavolo da incertezze, non si tratta di ipotesi o congetture bensì di fatti molto ben documentati. Ma queste incertezze, dubbi e tendenze negazioniste rimangono e prosperano tra il pubblico probabilmente proprio a causa delle modalità con cui le informazioni vengono trasmesse.
Un interessante studio condotto in modo molto dettagliato da Greenpeace nel 2022 su tutti i mezzi di comunicazione di massa (quotidiani, magazine, programmi radio e televisivi) ha sottolineato che nonostante l’intensificarsi degli eventi estremi sia ormai ben evidente a tutti, il problema climatico non viene raccontato in Italia per quello che è: un’emergenza che minaccia la vita sul pianeta e la sicurezza delle persone. Scarsissima è stata l’attenzione generale al fenomeno con pochissimi articoli al giorno pubblicati nel 2022 dai quotidiani italiani. Persino quando si parla di eventi estremi, la connessione con i cambiamenti climatici è riconosciuta in appena un quarto delle notizie trasmesse dai telegiornali. Ovviamente ciò con le dovute eccezioni. Nel 2023 forse le cose sono migliorate leggermente ma il problema rimane ed è per questo che è stato rivolto l’appello ai media. Il problema è in parte dovuto alle forti influenze sui media del potere politico ed economico e in parte della scarsa alfabetizzazione scientifica e partecipazione alle questioni ambientali del pubblico (i fruitori dei media). Questo innesca un circolo vizioso che sicuramente influisce sulla qualità del prodotto.
A mio parere, il problema nella comunicazione in questo ambito è molteplice.
A) È necessario sottolineare che il cambiamento c’è ed è in atto da tempo; non è vero che si tratta di un problema del futuro ma ahimè riguarda l’oggi e alcuni popoli della terra, ad esempio nel Sud-est asiatico, lo stanno sperimentando già molto più pesantemente di noi. Dire che nei prossimi anni ci sarà il cambiamento climatico è sbagliato. La crisi è già in atto e, sfortunatamente, alcuni processi sono già ampiamente compromessi e irreversibili. A questi dovremo far fronte con azioni di adattamento che non sono un aspetto secondario da considerare e studiare.
B) Il tempo atmosferico non è il clima. È assurdo far riferimento all’anno 1955 o alla calda estate del ’67 per affermare che quello a cui assistiamo oggi non è un fenomeno così strano e che d’estate ha fatto sempre caldo anche con situazioni estreme (“La ricordo bene quella estate quando ero bambino”). Quello non è il clima. Le misurazioni del clima hanno un “passo” temporale di decenni e riguardano situazioni medie, non certo misurazioni puntiformi e limitate nello spazio. Se guardiamo il fenomeno, quindi ad una distanza temporale e spaziale maggiore del singolo evento, i dati ci dicono chiaramente che la tendenza all’aumento delle temperature medie globali (ma anche di altri fenomeni associati come ad esempio il ritiro dei ghiacciai delle zone temperate o la perdita di ghiaccio marino artico) è in rapida salita, con tutte le conseguenze su vari processi ambientali che questo comporta, tra cui l’aumento dell’intensità e della frequenza di eventi estremi.
È importante precisare che le oscillazioni climatiche (come accade per molti altri fenomeni naturali globali) ci sono sempre state e fanno parte della storia naturale del nostro pianeta, ma la tendenza generale nell’andamento dei valori di queste oscillazioni è in rapida salita, molto più rapida di quanto ci dovremmo aspettare se la causa alla loro base fosse solo naturale. E questo ce lo dicono i dati rilevati dagli scienziati di tutto il mondo da decenni.
C) A tale proposito è importante sottolineare che viviamo effettivamente in un periodo interglaciale (da circa 12.000 anni) con tutto ciò che questo comporta. Le variazioni climatiche hanno, quindi, una componente naturale (ciò è già successo più volte nella storia della Terra) ma quello che viene omesso dai detrattori non informati (o in malafede) è il fattore tempo e la rapidità con cui questi processi si stanno verificando rispetto al lontano passato. Le modifiche a cui stiamo assistendo, non stanno procedendo con il passo dei tempi geologici (centinaia di migliaia o milioni di anni) ma stanno facendo sentire il loro effetto nel corso di pochi anni o decenni.
D) Le cause. È questo il punto cruciale sottolineato dall’appello. Non basta descrivere il fenomeno ma, ai fini della sua comprensione e risoluzione, è fondamentale elencarne le cause che sono in gran parte antropogeniche, ovvero derivanti dalle attività umane che negli ultimi due secoli (con una impennata a circa metà del secolo scorso) hanno trasformato drasticamente il pianeta e la sua atmosfera. Le curve che descrivono l’andamento nel tempo di parametri legati al clima (ad esempio l’aumento medio delle temperature globali) sono in aumento progressivo proprio in corrispondenza dell’inizio e consolidamento di quelle attività umane che hanno comportato il rilascio di grandi quantità di gas serra come la CO2. Non c’è alcun dubbio quindi: la causa di questi cambiamenti innaturalmente celeri sono le attività umane e lo attestano migliaia di studi a livello mondiale che hanno anche analizzato l’impatto relativo di cambiamenti naturali e quelli antropogenici.
E) A questo punto, se conosciamo le cause (le emissioni di gas serra prodotte dall’utilizzo di combustibili fossili) abbiamo a disposizione anche le possibili soluzioni prioritarie che, per quanto complesse e difficili possano essere, devono essere comunicate senza omissioni o giri di parole: la rapida eliminazione dell’uso di carbone, petrolio e gas, e la decarbonizzazione attraverso le energie rinnovabili. Non solo questa è la strategia giusta per fermare l’aumento delle temperature, ma è in gran parte tecnologicamente ed economicamente attuabile già oggi.
Il risultato di un processo comunicativo corretto e completo implica che anche i singoli cittadini possano essere artefici del cambiamento e quindi parte della soluzione a diversi livelli. Non affrontare il problema omettendo questi punti o trattandoli in modo scorretto o superficiale non fa che aumentare il senso di impotenza da parte del cittadino (“Cosa posso farci io visto che è sempre stato così e sempre sarà, si tratta di cicli naturali”) oppure, cosa ancora più grave, di negazione del problema stesso.
I cambiamenti culturali più importanti nella storia recente si sono innescati a partire dal mondo universitario, che per primo coglie, incuba ed irradia lo spirito del tempo. Nel caso della crisi climatica, molti ambiti sono fortemente coinvolti, oltre a quello strettamente scientifico, perché gli effetti sociopolitici della desertificazione di alcune aree del mondo si stanno già vedendo attraverso le migrazioni e le alluvioni di paesi anche distanti da noi. Da decenni i climatologi lanciano allarmi inascoltati: ma è come se mancasse una rete culturale a raccogliere ed interpretare i segnali. In ambito governativo la cronaca recentissima vede ministri della Repubblica, fra cui quello dell’Ambiente Pichetto Fratin e delle Infrastrutture Matteo Salvini esporre pubblicamente i loro dubbi nel migliore dei casi, e nel peggiore dileggiare con fare canzonatorio chi, fra i giovani, soffre di ecoansia. Lo scienziato cerca giustamente di mantenere un’equidistanza dalla politica, ma quando si sconfina nella responsabilità di negare evidenze scientifiche, visti i danni alla sicurezza della collettività che si dovrebbe invece proteggere, i confini fra scienza e politica si fanno più sottili. È etico tacere di fronte al negazionismo?
Rispondo subito all’ultima parte della sua riflessione. Di fronte ad atteggiamenti che, nella migliore delle ipotesi, evidenziano forte ignoranza nei confronti di un problema così grave che coinvolge la salute e il benessere della popolazione e dell’intero pianeta, tacere non è né etico né funzionale alla risoluzione dei problemi. Gli scienziati da decenni cercano di fare la loro parte sebbene i loro appelli rimangano spesso colpevolmente inascoltati.
Le prime denunce vibranti della crisi ambientale globale in atto e della insostenibilità degli impatti antropici sono state lanciate da scienziati e associazioni ambientaliste fin dagli anni ’50-’70 del secolo scorso. Gli appelli si sono susseguiti numerosi. Nel 1992 un primo importante “Warning to Humanity” sottoscritto da 1700 scienziati tra cui gran parte dei Premi Nobel allora viventi che avvertiva l’umanità dell’impatto sempre crescente e pericoloso dei cambiamenti globali in atto. Ebbe una certa risonanza anche mediatica ma non l’effetto sperato sulle politiche ambientali del mondo. Nel 2017 una ulteriore disperata lettera all’Umanità da parte di 15 mila scienziati di 184 Paesi di tutto il mondo (che mi onoro di aver sottoscritto). Un grido di allarme reiterato sul tempo perso e sul poco tempo a disposizione: in 25 anni davvero poco è stato fatto per limitare i danni provocati dall’uomo riguardo al cambiamento climatico, deforestazione, perdita di biodiversità, mancanza di accesso all’acqua, sovrappopolazione etc.
In questo caso l’eco mediatica dell’appello (anche in Italia) è stata molto maggiore, anche per i progressi tecnologici e di diffusioni social delle informazioni intervenuti nel frattempo rispetto agli anni 90. Sono seguiti altri appelli più circostanziati, uno del 2020 dedicato strettamente al cambiamento climatico. Nel frattempo, le COP (Conferences of the Parties) sulle diverse crisi ambientali hanno continuato a susseguirsi a testimonianza della necessità di fare qualcosa, delle buone intenzioni di farle ma anche spesso della inefficacia delle (poche) azioni messe in atto fino a quel momento. Gli interessi sociopolitici ed economici in gioco sono tanti e spesso in conflitto tra le parti e con gli interessi ambientali che sono però di tutti, minando in partenza l’efficacia stessa dei vari tavoli di discussione per il raggiungimento di accordi comuni.
A ciò si aggiunge, ed è verosimilmente una importante causa di insuccesso, un pesante problema generalizzato di incompetenze su temi ambientali, nonché di percezione e sottovalutazione della gravità del problema. Ci troviamo a dover lottare con negazionismi, fake news e atteggiamenti derisori e irresponsabili anche da parte di chi invece dovrebbe provvedere alla risoluzione di questi problemi.
Ecco perché ritengo che tra le azioni urgentissime da mettere in atto per contrastare la crisi ambientale vi sia anche una vera e propria rivoluzione culturale che porti ad una consapevolezza più profonda e diffusa al di fuori della ristretta cerchia degli addetti ai lavori del problema dei cambiamenti globali e delle loro conseguenze, un cambio di mentalità generalizzato sulle questioni che riguardano la natura e il nostro posto in essa e, infine, una conseguente modifica strutturale e stabile del nostro modo di stare al mondo. È vero, non si può scindere il benessere del pianeta dal benessere delle persone, senza un’equità sociale ed economica, senza pensare al nostro mondo come ad un sistema unitario che richiede unità di azioni e solidarietà tra i popoli. Lo hanno evidenziato molto bene gli obiettivi della Agenda 2030 dell’ONU in cui il tema dello sviluppo sostenibile è declinato in vari modi interconnessi, dalla salvaguardia della biodiversità alla riduzione della povertà e miglioramento della salute per tutti.
Come lei stessa ha evidenziato, è fondamentale riconoscere che il dominio economico e quello sociale sono fortemente interconnessi al dominio ecologico e da questo dipendono. L’ignoranza sulla storia planetaria e sulle dinamiche e i processi naturali che la caratterizzano da parte della gran parte dei decisori mina qualsiasi ambizione di modernità verso un futuro in armonia con il nostro pianeta, di vera transizione ecologica e di anelito alla tanto declamata sostenibilità.
Oltre alla dimensione nazionale, certamente importantissima, vi sono almeno altre due dimensioni nelle quali la vita quotidiana di ciascuno di noi impatta ed è impattata: quella continentale e quella locale. Se l’Europa, pur con tutte le difficoltà, mostra di essere sempre un passo avanti per politiche negli ambiti di conservazione della biodiversità (ricordiamo le direttive Habitat e Uccelli), energetico e ambientale, In ambito locale si ha l’impressione di incidere meno e anche che gli amministratori, eccetto pochi casi, “sonnecchino”. Eppure, la gestione del suolo, della cementificazione, delle risorse idriche e della mobilità sono solo alcuni dei temi cardine sui quali localmente la partita è apertissima e di fondamentale importanza per la vivibilità del territorio. Scendendo nel pratico, cosa vede all’orizzonte? Esistono gruppi di ricerca che possono indirizzare l’amministrazione di Parma e dei comuni della provincia verso un orizzonte di resilienza, adattamento e mitigazione? Oppure è ancora necessario agire sulla divulgazione corretta, anche tramite la stampa?
Aggiungo che a livello europeo registriamo un recentissimo e importantissimo successo in ambito ambientale con la approvazione della Nature Restoration Law, la nuova legge sul ripristino degli ambienti naturali che promuove la biodiversità e l’azione per il clima in tutta Europa e apre la strada, sebbene ci siano ancora molti correttivi da apportare, ad azioni ancora maggiori e più profonde volte alla salvaguardia dell’ambiente. Ai problemi globali si aggiungono (e spesso ne sono un tassello importante) anche quelli locali e territoriali, a scale di diversa grandezza a seconda della “zoomata” che facciamo. A ogni livello, comunque, ciascuno deve fare la propria parte. La soluzione dei problemi grandi o piccoli, globali o locali che siano parte da azioni individuali, di comunità e sociali.
L’Università di Parma e nello specifico il Dipartimento di Scienze Chimiche, della Vita e della Sostenibilità Ambientale di cui faccio parte sta lavorando molto nello studiare i fenomeni, individuare azioni di salvaguardia ambientale, proporre soluzione dei problemi della crisi in atto e idee per una vera transizione ecologica e sviluppo sostenibile che verranno messe a disposizione di tutti. Occupandomi di tematiche legate allo studio, salvaguardia e conservazione della Natura e in particolare della biodiversità, mi fa piacere sottolineare il forte impegno di molti ricercatori del nostro Dipartimento in questo ambito e delle numerose collaborazioni instaurate con le più importanti Istituzioni che operano nel territorio, il Comune di Parma e altri Comuni del parmense, l’Arpae, l’Ente Parchi per la Biodiversità dell’Emilia Occidentale, il Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano e l’Autorità di Bacino del fiume Po.
Un esempio di progettualità recentemente messa a punto per favorire sinergie con gli Enti Locali per una valorizzazione del territorio parmense ma con uno sguardo rivolto anche al resto dell’Italia e dell’Europa è rappresentato dalla ideazione del Centro Europeo di Ricerca su Biodiversità & Funzionamento degli Ecosistemi in Appennino. Il progetto necessita di adeguati finanziamenti per essere avviato, ma le basi culturali sono solide e l’impegno assicurato dai vari gruppi di ricerca coinvolti, tra cui il mio, lo sono altrettanto. L’idea è nata in seno al nostro Dipartimento grazie all’impegno del collega Rossano Bolpagni che se n’è fatto promotore. Il Centro avrà come principale missione lo studio multidisciplinare della biodiversità e del funzionamento degli ecosistemi per elaborare, mettere a punto e sostenere modelli di sviluppo basati sulla valorizzazione e la conservazione del capitale naturale e dei prodotti agro-alimentari. I ricercatori saranno impegnati ad indagare i processi di trasformazione del paesaggio dell’Appennino, anche alla luce delle crisi ambientali in atto, e a individuare strategie e soluzioni comuni di mitigazione degli effetti indotti da questi cambiamenti.
Lei fa parte di un’istituzione che incide fortemente sugli equilibri del territorio. Secondo Lei quale ruolo può svolgere l’Università di Parma? Il nuovo rettore Martelli dovrebbe ripristinare il delegato alla Sostenibilità? E la cosiddetta Terza Missione (valorizzazione della conoscenza nei rapporti con cittadinanza e territorio) può essere maggiormente orientata sulla sensibilizzazione al climate change?
Oltre a quanto già detto prima sui rapporti con il territorio, l’Università incide fortemente nella formazione culturale e professionale delle nuove generazioni. Da docente e Presidente di un Corso di Studi in Scienze della Natura e dell’Ambiente sento forte questa responsabilità, soprattutto quando i temi sono quelli di cui abbiamo parlato. Ma è anche una sfida che diventa fonte di soddisfazione quando si coglie negli allievi la scintilla della passione e dell’impegno che questi portano con successo nella loro vita quotidiana e professionale.
Il tema della sostenibilità in generale e della sostenibilità ambientale in particolare sono già centrali nelle azioni del nostro Ateneo e parte importante del programma di lavoro del futuro Rettore. Pertanto, non ho dubbi che ci sarà una particolare attenzione al riguardo.
A tale proposito, vorrei anche ricordare il riconoscimento ricevuto di recente dall’Università di Parma con tre “Dipartimenti di eccellenza” selezionati dal MUR. Una conferma per il nostro Dipartimento di Scienze Chimiche, della Vita e della Sostenibilità Ambientale, selezionato per il secondo quinquennio consecutivo, una novità per il Dipartimento di Giurisprudenza, Studî Politici e Internazionali e il Dipartimento di Scienze degli Alimenti e del Farmaco. Tutti e tre i Dipartimenti sono stati selezionati per progetti inerenti il tema della sostenibilità declinata in vario modo e su aspetti molto interessanti, importanti e promettenti: diritto al cibo, sostenibilità e rigenerazione, progettazione e sintesi di nuovi prodotti per salute e benessere di uomo, animali e ambiente. Tutto ciò, oltre che rappresentare motivo di soddisfazione per tutta la comunità accademica, fa davvero ben sperare per consolidare sinergie (o instaurane di nuove) sia all’interno dell’Ateneo che con le Istituzioni locali, nazionali internazionali. A tale proposito ricordo che l’Università di Parma ha da sempre una fortissima vocazione europea che ha recentemente portato al suo pieno coinvolgimento nella Alleanza EU GREEN (The European University alliance for sustainability: responsible GRowth, inclusive Education and ENvironment) che coinvolge 9 Università europee e promuove la condivisione di strategie di didattica e ricerca e la loro sintesi in una strategia condivisa del consorzio.
Concludo con alcune riflessioni sulla terza missione. Da sempre molti di noi sono fortemente impegnati non solo nella produzione di conoscenza ma anche nella sua divulgazione e messa a disposizione della comunità. Crediamo fortemente nel coinvolgimento delle persone (public engagement). Tant’è che alcune azioni in questo ambito realizzate nel nostro Ateneo sono state anche riconosciute a livello Ministeriale come eccellenze. Un aspetto particolarmente interessante è la partecipazione diretta del cittadino al processo scientifico, quella che viene definita tecnicamente “Citizen Science”, una interessante esperienza di scienza partecipata in cui si può contribuire alla acquisizione di conoscenze aiutando i ricercatori di professione. Tutto ciò non solo aiuta ad avvicinare la gente al mondo accademico superando tradizionali barriere che non hanno più motivo di esistere, ma può contribuire significativamente alla familiarizzazione con le metodologie della scienza e ad avvicinare le persone alle tematiche ambientali in modo corretto e consapevole.
Uno dei nostri obiettivi, condiviso tra l’altro da molti dei firmatari dell’appello, è promuovere la cultura della natura e dell’ambiente come fonte di benessere psico-fisico, culturale, spirituale, scientifico ma anche economico e sociale visti i numerosi e straordinari servizi ecosistemici che la natura intatta ci offre senza che noi ce ne rendiamo conto. Fermatevi un attimo ora e pensate, ad esempio, al vostro respiro e a quanto noi dipendiamo da aria, acqua terra, sole, piante, altri animali e microrganismi. Noi siamo natura e non possiamo farne a meno se vogliamo continuare ad esistere come specie su questo meraviglioso pianeta. La biosfera non appartiene all’uomo ma è l’uomo ad appartenerle, ha in più occasioni ribadito il grande biologo E.O. Wilson, sottolineando l’importanza della biofilia e del senso di appartenenza alla natura come ancora di salvezza per tutti noi.
Crediti foto: Chiara Bertogalli
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